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Lino Capolicchio è cresciuto con la volitiva mamma Eufemia – stesso sguardo celeste, stessa pelle algida e lucente – e l’adorata nonna Anna, che «era una contadina abbiente, e ha sempre creduto in me; all’Oscar il mio pensiero è volato a lei, con cui andavo al cinema da bambino, senza mai pensare che un giorno su quello schermo ci sarei stato io».
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L’Oscar che rievoca Lino è quello vinto nel 1972 come Miglior film straniero da Il giardino dei Finzi Contini, diretto da Vittorio De Sica e tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, che di Lino era stato docente all’Accademia Silvio D’Amico. Le pagine di questo diario finora inedito – Capolicchio ne ha compilato uno per la maggior parte della propria esistenza – raccontano di quel capolavoro prima, durante e dopo la lavorazione. A intercalare la “presa diretta” di allora, l’ampia intervista raccolta negli ultimi due anni da Nicole Bianchi per Cinecittà SpA, a ripercorrere con sguardo fresco le tappe e i retroscena, privati e pubblici, di un’opera cinematografica che per Capolicchio – scomparso durante la lavorazione, seguita con cura gioiosa fino all’ultimo – rimane «un miracolo. Un film di una bellezza in cui ancora ti rispecchi». Dalle pagine che il grande attore (anche regista e sceneggiatore) scriveva con penne di diversi colori, prendono vita la vivace dialettica tra set e quotidianità, la lievità insaziabile degli amori (con annessi sensi di colpa tardivi), la passione per la musica, la pittura e il cinema (anche da spettatore), la dedizione a un mestiere intrapreso per talento naturale, sempre coltivato con umiltà e reverenza.
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